Articolo: IL MECCANISMO METAFISICO NELLA DOTTRINA LEIBNIZIANA DEI MONDI POSSIBILI

di Alfredo Spano

Nella filosofia di Leibniz, il mondo che esiste attualmente non è altro che l’attuazione di una combinazione di infinite essenze possibili che sono nella mente di Dio. Tuttavia, di questi infiniti possibili, solo una parte è passata all’esistenza; infatti, per Leibniz, il campo del possibile è infi-nitamente più vasto di quello dell’esistente. Ci dobbiamo chiedere, perciò, come mai, tra gli infiniti possibili, solo alcuni di essi sono passati all’esistenza. A questa domanda Leibniz sembra rispondere in due modi diversi e contraddittori. Per un verso, preferendo l’essere anziché il nulla, il Dio leibniziano ha scelto liberamente, tra gli infiniti mondi possibili, quello che dal suo punto di vista è risultato essere il migliore. Dio ha scelto non solo una determinata serie di possibili tra loro in relazione, ma anche uno per uno tutti i possibili che vanno a formare la serie che esiste in atto, escludendo naturalmente le verità eterne. Per un altro verso, Leibniz pone la ragione dell’esistenza di questo mondo non in un libero atto della volontà divina, ma in quell’esigenza interna ai possibili, che per loro natura tendono all’esistenza, in proporzione del grado di essenza, perfezione o intelligibilità che contengono. Poiché non tutti i possibili sono compossibili (cioè alcuni passano all’esistenza e altri restano in eterno nel loro stato di mere possibilità), si sviluppa tra loro una lotta per diventare attuali, che viene vinta da quella combinazione di possibili che, presa insieme, risulta più perfetta delle altre.

È questa la controversa teoria leibniziana del meccanismo metafisico, secondo la quale i possibili si combinerebbero da soli nell’ordine più perfetto; in questo caso Dio, la cui libera scelta sembrava essere determinante per l’esistenza del nostro mondo, sarebbe costretto ad uscire di scena. L’esistenza sarebbe solo una conseguenza della tendenza insita nei possibili: tendenza che passerebbe da sola all’atto, una volta superato l’ostacolo dell’incompossibilità.

Negli Elementa philosophiae arcanae (1676), un insieme di appunti usati da Leibniz per fissare qualche sua idea, troviamo un primo accenno, seppur molto vago, alla teoria del meccanismo metafisico, a proposito della quale Leibniz scrive: << Considerata bene la questione, stabilisco come principio l’armonia delle cose, e cioè che esista la massima quantità di essenza possibile. Ne segue esservi più ragione per esistere che per non esistere, e che tutte le cose esisterebbero, se ciò potesse accadere. Esistendo infatti qualcosa, e non potendo esistere tutti i possibili, ne segue che esistono quelli che contengono più essenza, non essendovi altra ragione di scelta, e per escludere gli altri >>.

Un altro riferimento al meccanismo metafisico lo troviamo negli Elementa verae pietatis (1677-78), laddove Leibniz si dilunga maggiormente sull’argomento: << [...] affinché esista qualcosa piuttosto che il nulla, è necessario che ciò da cui consegue l’esistenza attuale sia conte-nuto nella stessa Essenza o possibilità. Pertanto la realtà o possibilità comporta una certa propensione ad esistere. Dunque, quando avviene che più possibilità si ostacolano tra loro, ovvero quando esse non possono coesistere, giunge ad esistere ciò che ha più realtà, ovvero ciò che è più perfetto >>.

Dal momento che esistono solo alcuni possibili, la possibilità deve essere una disposizione all’esistere piuttosto che al non esistere. Secondo Leibniz, i possibili esistenti debbono differire rispetto a quelli che non esistono, << [...] e il più generale discrimine tra i possibili è proprio il grado di realtà, ovvero la quantità di essenza >>. Ci deve essere una ragione del fatto che non esistono tutte le possibilità: << Una volta ammesso che ciò non può avvenire, ne consegue che esistono quante più se ne può >>.

Rispetto al primo passo citato, in quest’ultimo Leibniz è molto più chiaro: egli afferma che la ragione dell’esistenza attuale va ricercata nella natura dei possibili, che possiedono una propensione verso l’esistenza. Questa disposizione dei possibili, tuttavia, non è ancora sufficiente a farli passare all’esistenza, perché non tutti i possibili possono coesistere. Allora esisterà la serie di possibili più perfetta, ossia quella che contiene la massima quantità di possibili compossibili. Di conseguenza, sembrerebbe che il Dio di Leibniz non sia altro che uno spettatore ininfluente del meccanismo metafisico che avviene nel mondo dei possibili.

Su passi come questi si è basata, a nostro avviso, l’interpretazione del Piat, il quale ha affermato che, secondo Leibniz, il fondamento di tutto ciò che esiste va rintracciato nel possibile, e che la realtà attuale stessa sarebbe il risultato della logica del possibile: << L’attuale si spiega mediante la logica e la logica dal canto suo non può spiegare l’attuale se non procedendovi per uno slancio interno >>. Secondo il Piat, da questo aspetto, << [...] il mondo non è che una logica in movimento o il movimento della logica >>. Ecco perché Leibniz sarebbe ricaduto nello spinozismo.

Se analizziamo i testi di Leibniz, tuttavia, ci rendiamo conto che l’interpretazione del Piat non può essere accettata. A questo proposito è illuminante il breve saggio De rerum originatione radicali (1697), dove Leibniz parla per la prima volta in modo più ampio del meccanismo metafisico. Dato che esiste qualcosa anziché niente, vi deve essere nei possibili << [...] un’esigenza di esistenza o, per dir così, una pretesa ad esistere: in una parola, che l’essenza tende per se stessa all’esistenza >>. Sicché tutti i possibili tendono con eguale diritto all’esistenza, <<[...] in proporzione alla loro quantità di essenza o di realtà, cioè al grado di perfezione che contengono. Non è infatti, la perfezione, altro che la quantità d’essenza>>. Pertanto, secondo Leibniz, << [...] s’intende già meravigliosamente come nella stessa origine delle cose, si eserciti una sorta di mathesis divina o di meccanismo metafisico, ed abbia luogo la determinazione del massimo [...] >>.

Un’attenta disamina dell’opera del filosofo tedesco ci mostra che Leibniz non ammette mai un’originaria autonomia dei possibili; infatti la tendenza all’esistenza dei possibili presuppone l’esistenza di un Essere supremo, il quale, nel momento stesso in cui decide di porre in essere il mondo reale, combina i possibili nel modo più perfetto, imprimendo loro quella tendenza che li spinge ad attuarsi. Se quindi si elimina Dio dalla scena della creazione, come pretende di interpretare il Piat, i possibili non avranno mai quella spinta che li indirizzerà verso l’esistenza, e resteranno per sempre delle inerti possibilità.

Questo concetto viene ulteriormente chiarito da Leibniz in un altro brevissimo scritto, che funge da appendice al saggio sopra citato. Qui il tendere dei possibili all’esistenza è spiegato con il loro radicarsi in un esistente in atto, Dio, che viene detto esistentificante: << 4. Vi è, dunque, una causa perché l’esistenza prevalga sulla non - esistenza; ovvero, l’Essere necessario è esistentificante. 5. Ma quella stessa causa che fa sì che qualcosa esista, ossia che la possibilità esiga l’esistenza, fa sì che ogni possibile abbia un conato all’esistenza, non potendosi trovare nell’universale una ragione di restrizione a certi possibili. 6. Pertanto ogni possibile può essere detto existiturire, in quanto si fonda sull’Essere necessario esistente in atto, senza il quale non vi sarebbe alcuna via per cui il possibile pervenga all’atto >>.

Contro l’interpretazione del Piat si schiera, con valide motivazioni, la Del Boca che, nel suo eccellente lavoro, scrive: << Ci pare che una tale interpretazione, per quanto autorizzata dalla lettera di passi leibniziani isolatamente presi, non possa tuttavia essere accettata. Non vogliamo dire che Leibniz non abbia mai tentato questa via: ma altro è un tentativo in via di esperimento, un abbozzo di ragionamento che può venir registrato provvisoriamente; altro è un risultato acquisito e inserito definitivamente nel vivo del sistema. Il pensiero nel lavoro di ricerca e di costruzione procede spesso per tentativi; non di rado imbocca vicoli ciechi o infila strade che una volta iniziate mostrano una direzione falsa o pericolosa: accortosi del pericolo, se ne ritrae e le abbandona [...] >>.

Di conseguenza, il meccanismo metafisico non può esistere di per sé, dal momento che i possibili esistono solo in quanto sono nella mente di-vina, anzi costituiscono lo stesso intelletto divino, che si può definire come regio idearum. Leibniz infatti scrive: << [...] né dette essenze, né quelle che si chiamano le loro verità eterne, sono fittizie: esse esistono, in una certa, per dir così, regione delle idee, e cioè in Dio stesso, fonte di ogni altra essenza ed esistenza >>.

L’intelletto di Dio rappresenta pertanto la condizione irrinunciabile del realizzarsi del meccanismo metafisico. I possibili, infatti, derivano da Dio sia la loro esistenza, che rinvia, come abbiamo visto, all’intelletto divino, sia la loro aspirazione all’esistenza, che appare allorquando Dio preferisce l’essere al nulla e decide di creare qualcosa.

Leibniz mette in risalto questo aspetto soprattutto nei Saggi di Teodicea (1710): << Si può dire che, non appena Dio decide di creare qualcosa, nasce un conflitto tra tutti i possibili, dato che tutti aspirano all’esistenza, e che quelli che, tutti insieme, producono il più alto grado di realtà e di perfezione, la raggiungono >>.

La ragione ultima della realtà, sia di quella possibile che di quella esistente, va dunque rintracciata in un Essere reale e necessario, che fonda la realtà del possibile e la sua aspirazione ad esistere. Una logica dei possibili del tutto autosufficiente e spontanea non esiste dunque nel sistema di Leibniz. Esiste invece, per usare le parole della Del Boca, << [...] un conflitto di possibili che si attua nell’Intelletto divino >>.

Questo evita che il meccanismo metafisico comporti una necessità assoluta di tipo spinoziano, dal momento che i possibili non si attuano in virtù di una causa che sia in loro intrinseca, ma hanno bisogno dell’intervento di un Essere che non sia riducibile al loro insieme, e cioè della volontà divina, che segue quanto viene rappresentato dall’intelletto in modo chiaro e distinto. L’esistenza delle cose dipende in tal modo da una volontà, guidata dall’intelletto, che non è entro i possibili che realizza, ma fuori, come un’attività ad essi irriducibile.

Nella Monadologia (1714), Leibniz afferma che << [...] nelle idee di Dio v’è un’infinità di universi possibili, ma - d’altra parte - non può esisterne che uno solo [...] >>. C’è bisogno, come si vede, di una ragione per la quale Dio possa scegliere un mondo preferendolo a tutti gli altri; e questa ragione viene identificata << [...] nella convenienza o nei gradi di perfezione che questi mondi contengono, in quanto ogni possibile ha diritto di pretendere all’esistenza a seconda della perfezione che racchiude >>.

Da questo passo emerge che nell’intelletto divino non ci sarebbero i singoli possibili, bensì già gli insiemi di possibili che formano i vari mondi; se questo fosse vero, tuttavia, Dio non si troverebbe a dover combinare i singoli possibili per formare le diverse serie, perché queste sem-brerebbero già essere preformate dall’eternità nella sua mente, indipendentemente dall’esistenza del mondo migliore. Il ruolo di Dio sarebbe fortemente sminuito, in quanto il suo compito verrebbe ad essere soltanto quello di scegliere la serie che, nel suo complesso, racchiude più perfezione, senza tuttavia poter influire sulla sua costituzione.

Ora questo ragionamento di Leibniz non è molto convincente; la migliore combinazione possibile non nasce automaticamente, come egli invece riteneva, paragonando l’aspirazione dei possibili all’esistenza alla tendenza dei gravi verso il centro della terra. In virtù di questa ten-denza, se alcuni corpi di diverso peso cadono insieme, essi cadranno con la velocità maggiore consentita dal rapporto tra le singole velocità. Ma i corpi non cadono con la massima velocità loro consentita se non li disponiamo in un certo modo. Se vogliamo ottenere la massima velocità dalla caduta di alcuni corpi, è necessario disporli proprio in vista di questo scopo, e non possiamo affidarci, nella loro disposizione, alla loro combinazione spontanea. Di conseguenza, l’aspirazione all’esistenza insita nei possibili darà luogo al composto più ricco solo se proprio questo composto, e non la semplice realizzazione del singolo possibile, è il fine a cui l’aspirazione tende. Solo se il composto più ricco fosse già presente come ragione di movimento entro ciascun possibile, si potrebbe spiegare tale risultato. Ma sappiamo che Leibniz tutto questo non lo pensava: a suo avviso la composizione più ricca deve essere il risultato di un conflitto tra le varie aspirazioni dei possibili.

Abbiamo visto che il meccanismo metafisico dei possibili non può sussistere da solo, ma richiede un luogo dove si possa svolgere (l’intelletto divino) e una causa che lo metta in movimento (la volontà divina). Ma ciò non annulla affatto il meccanismo; anzi, volendo esprimerci come la Del Boca, Leibniz << [...] lo stacca dalla sfera del metaforico e del chimerico per trasferirlo in quella della realtà >>. Il meccanismo metafisico è, da tale aspetto, una specie di conflitto tra i voleri divini che si svolge nell’intelletto supremo.

Accanto al meccanismo metafisico, nel De rerum originatione radicali Leibniz parla anche di una matematica divina per spiegare l’origine ultima delle cose, ritenendo simili due concetti che in realtà nascondono una diversità notevole. Per un verso, infatti, dire che l’esistenza è il risultato di un meccanismo metafisico significa affermare che essa è l’effetto di un automatismo non intenzionale; per un altro verso, dire che l’esistenza è il risultato di una matematica divina significa affermare che questa è il prodotto di un calcolo intenzionale da parte di un Essere supremo.

Se, in tal modo, Leibniz facesse leva solo sul meccanismo metafisico, il suo Dio sarebbe solo uno spettatore dell’automatismo spontaneo e autosufficiente che avviene nel campo dei possibili. La messa in luce della matematica divina serve, invece, a Leibniz per fare di Dio un attore che, mettendo in movimento i possibili, non si limita a contemplare ciò che accade indipendentemente dal suo volere.

Nel Dialogus (1677) c’è una famosa ed importante frase di Leibniz: <<Cum Deus calculat et cogitationes exercet, fit mundus >>. La traduzione più seguita di questa frase è: << Quando Dio calcola, e mette in atto il suo pensiero, sorge il mondo >>. Ma, a nostro avviso, la traduzione filosoficamente più pregnante e corretta è: << Quando Dio gioca con le pedine, e mette in esecuzione il suo disegno, è fatto il mondo >>. Infatti il termine latino calculus, oltre a pietruzza, significa anche pedina di un gioco sul tipo della dama e degli scacchi, mentre il termine cogitatio, oltre a pensiero, si può anche rendere con progetto o disegno.

In base a questa interpretazione, ci sembra di poter osservare il Dio di Leibniz che, metaforicamente, nell’atto della creazione, gioca a scacchi usando come pedine i possibili; elabora il miglior piano strategico di gioco per vincere la partita scartando infinite altre combinazioni e, alla fine della partita, esegue la mossa che gli dà la vittoria. Pertanto, come è im-possibile che su una scacchiera i pezzi si muovano da soli in modo da dar vita ad una partita strategicamente perfetta senza il contributo mentale del giocatore, così è altrettanto impossibile che i possibili si dispongano da soli nell’ordine più perfetto senza il saggio intervento di un essere supremo che sa come combinarli nel miglior modo possibile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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